Lula difende l’«etanolo buono»
15/05/2008 - e2net
Il bioetanolo, in particolare l’etanolo che in Brasile si ricava dalla canna da zucchero, e negli Stati Uniti dal mais, è sotto tiro. Le associazioni ambientaliste e i movimenti legati all’agricoltura familiare lo attaccano da tempo, tuttavia il salto di qualità nelle critiche all’impiego di questo biocombustibile è molto recente. Prima Fidel Castro, nella nuova veste di editorialista, più tardi il relatore speciale delle Nazioni unite sul diritto all’alimentazione, Jean Ziegler, creando l’immagine d’un avanzante conflitto tra cibo e biocombustibile, hanno scatenato un forte e diffuso malcontento contro questa fonte d’energia rinnovabile. Tanto che la stessa Unione europea è giunta a ripensare la propria strategia di graduale approdo ai biocarburanti.
Il dibattito si è spostato dal terreno scientifico a quello mediatico e propagandistico, quando non ideologico, laddove gli attacchi all’etanolo vegetale brasiliano sono usati in funzione essenzialmente dialettica. L’obiettivo è rafforzare gli argomenti contro la produzione statunitense ottenuta dal granturco, sicuramente meno sostenibile della sudamericana sotto il profilo ecologico.
Si tratta invece di due biocombustibili che differiscono per potenziale energetico, costi di produzione, finanche per l’impatto ambientale: l’álcool (così i brasiliani chiamano l’etanolo, di cui sono i primi esportatori al mondo) è senz’altro più “pulito”, in termini d’emissioni d’anidride carbonica. E non è tutto, poiché – come si affanna a ripetere il presidente Luiz Inácio Lula da Silva – l’incidenza della coltivazione della canna a fini energetici, sull’aumento dei costi degli alimenti, è tutta da dimostrare. (Al contrario, sono ampiamente dimostrate le responsabilità della politica bioenergetica nordamericana nell’incremento dei prezzi dei cereali, ndr). Ha quindi ragione da vendere Sir David King, ex consulente scientifico del Governo britannico, quando dice che, come per il colesterolo, c’è l’etanolo buono e l’etanolo cattivo. Anche l’universo liberal statunitense ha deciso di avversare la strategia agroenergetica dell’Amministrazione Bush, mirata a difendere la grande industria agricola del middle-west, sia attraverso sovvenzioni, sia con misure protezionistiche: si pensi solo alle barriere doganali proibitive, che rendono non conveniente l’importazione dell’etanolo brasiliano. (Tuttavia gli osservatori della politica a stelle e strisce fanno notare che neppure un eventuale esecutivo di diverso segno politico potrà alienarsi le simpatie della la cosiddetta «corn belt», ossia gli stati della cintura del granturco). E l’impressione è che in questa «guerra all’etanolo», il ricavato della canna rivesta il ruolo dei tristemente noti danni collaterali e delle vittime delle “bombe intelligenti”.
Altrimenti non si capirebbe perché l’economista Paul Krugman, celebrato notista del New York Times, abbia alternato acuti attacchi all’etanolo made in Usa, con critiche ben più semplicistiche contro la produzione brasiliana. «L’uso da parte del Brasile di etanolo ottenuto dalla canna da zucchero, per esempio, accelera il ritmo col quale si determina il cambiamento perché incentiva la deforestazione», ha di recente scritto, ignorando che nessuno studio attendibile lega la ripresa del disboscamento amazzonico, all’investimento del Governo brasiliano sui carburanti alternativi. Del resto alle latitudini ove scorre il Rio delle Amazzoni, sostengono in molti, la coltivazione della pianta non sarebbe conveniente. Al contrario, il governatore dello Stato di Amazonas, Edoardo Braga, sta conducendo una battaglia politica – almeno all’estero piuttosto impopolare – affinché possa piantarsi canna in aree amazzoniche già disboscate, e quindi degradate. Come anticipato, a sferrare il più duro e mediaticamente efficace attacco ai biocombustibili è stato l’inviato speciale Onu, Ziegler.
Senza mezzi termini li definì «un crimine contro l’umanità», certo che l’impennata dei prezzi agricoli era frutto, almeno in parte, della sottrazione di terra arabile alla produzione alimentare, per destinarla ai biocarburanti. Questa teorizzazione di una crescente competizione tra cibo ed energia parve invero rivolta – più che alle strategie dei brasiliani, pionieri nel ricavare alcool dalla canna, e nel suo impiego per autotrazione – al bioetanolo da cereali. In ogni caso, dopo quella dichiarazione a effetto l’opinione pubblica mondiale ha voluto saperne di più. Così la “Folha de São Paulo”, il più importante quotidiano brasiliano, gli ha concesso una lunga intervista, ove non sarà tenero né con Lula, né col suo partito, né, più in generale, con l’intera politica agroenergetica brasiliana. «Trasformare terre agricole in terre destinate al bioetanolo è un errore profondo», ha messo subito in chiaro, aggiungendo: «Il Pt invece di promuovere l’agricoltura familiare torna allo zucchero, il che significa concentrazione di terre nelle mani delle multinazionali e delle oligarchie».
Di fronte ai rilievi del giornalista circa le differenze tra l’etanolo da canna e quello da cereali, Ziegler dà l’impressione di cedere («sono d’accordo ci sono differenze»), prima, però, di sferrare l’affondo più duro: «L’atteggiamento brasiliano è ipocrita. Perché se si aumenta la produzione di canna questo avviene a scapito della produzione di alimenti». Il portavoce delle Nazioni Unite prende atto che il Brasile – almeno secondo il suo presidente – ha decine di milioni di ettari con coltivati; e tuttavia, a suo parere, «il problema è che gli investimenti e l’acqua usati per l’etanolo finiscono per essere sottratti ad altre coltivazioni», ed i generi alimentari debbono quindi essere necessariamente importati. Ziegler affronta poi il tema della deforestazione amazzonica, a suo parere conseguenza anche delle coltivazioni intensive della canna. Si dichiara quindi in totale disaccordo col Governo di Brasília, secondo cui la ripresa della deforestazione in Amazzonia è dovuta solo all’espansione di pascoli e piantagioni di soia, oltre che alle attività illecite dell’industria del legname: «Il Governo dice che praticamente non c’è coltivazione di canna in Amazzonia. Ma c’è».
Giustifica poi la proposta di moratoria quinquennale della produzione d’etanolo, anche con la sua scarsa capacità di generare occupazione: mentre cento ettari coltivati a canna, chiarisce, generano solo dieci posti di lavoro, se ne creerebbero addirittura trentacinque destinando la stessa area all’agricoltura familiare. L’intervista fiume di Ziegler – da cui il segretario Ban Ki-moon ha preso le distanze, specificando che la sua posizione sull’etanolo non è quella ufficiale dell’Onu – termina con l’auspicio dell’avvento di una tecnologia economicamente conveniente, che sia capace di trasformare gli scarti agricoli in carburanti. Sulla sua scia, accanto al citato New York Times, si è mosso anche il giornale britannico “The Indipendent”: «L’industria dell’etanolo in Brasile», si legge in un pezzo a firma di David Howden, «è legata all’inquinamento dell’aria e dell’acqua in scala epica, al disboscamento della foresta amazzonica e atlantica, e alla distruzione della savana dell’America latina». Si rincara poi la dose, teorizzando una relazione diretta tra il boom dei prezzi del cibo, e i più recenti incrementi dei tassi di disboscamento: «Mentre negli ultimi diciotto mesi i prezzi dei beni usati nella produzione di biocombustibili stavano aumentando, i tassi di deforestazione bruciavano ogni record».
Queste posizioni di forte critica hanno portato alla luce tutti i fenomeni più controversi legati alla coltura della canna, a cominciare dalle difficili condizioni di lavoro dei tagliatori. Molti osservatori sono convinti, infatti, che la gran parte dei cortador de cana viva una situazione di vero e proprio lavoro-schiavo. Di certo a migliaia vengono reclutati da intermediari senza scrupoli (in Brasile chiamati gato), e grazie alla promessa d’un lavoro stagionale, che sovente si trasforma però in turni massacranti con cui dover rimborsare quanto ricevuto, cioè vitto, alloggio, trasporti, e perfino attrezzi da lavoro. Inoltre sotto accusa sono finiti anche gli incendi appiccati alla coltivazione la notte prima della raccolta, al fine di rendere meno dura la pianta da tagliare: la loro responsabilità in termini di aumento delle emissioni dei gas serra sarebbe enorme. Di fronte a questi attacchi all’etanolo brasiliano, Lula ha reagito con una violenza verbale per lui insolita: «Quando abbiamo creduto nell’idea di investire in biodiesel in Brasile», ha detto nel corso d’un recente viaggio in Ghana, «non avrei mai pensato che avremmo avuto tanti avversari nel mondo sviluppato. Non capisco perché i paesi ricchi non parlino male del prezzo del petrolio. Che influenza ha, nel costo degli alimenti, un barile del petrolio che costa centotre dollari? Perché i paesi ricchi soprattassano l’etanolo brasiliano e non tassano il petrolio?».
Il presidente-operaio torna sul tema durante il vertice Fao celebrato a Brasília, alludendo in modo quanto mai diretto allo svizzero Ziegler: «Non accetto più questa contrapposizione fra biocombustibili e alimenti. E’ troppo facile per qualcuno stare seduto sulla scrivania in Svizzera e dare consigli all’Africa o al Brasile: dovrebbe venire qui e mettere i piedi nel fango, per capire come viviamo, la quantità di terra che abbiamo, il nostro potenziale di produzione». A suo parere il problema non deve essere affrontato sotto l’ottica europea, ma è convinto che i prezzi degli alimenti caleranno aumentandone la produzione. Ribadisce quindi che in Brasile la terra non manca, disponendosi di quattrocento milioni di ettari di terreno agricolo, e di altri sessanta di terreno degradato, ma recuperabile. Le delegazioni brasiliane ripetono in giro per il mondo che non esiste contraddizione tra la ricerca di fonti alternative e lo sviluppo d’imprese agricole che sappiano garantire sicurezza alimentare, se non altro perché le coltivazioni sotto accusa occuperebbero solo l’1 per cento delle terre arabili.
E cercano di convincere – statistiche alla mano, ma non senza difficoltà – che gli indici nazionali della denutrizione calano con l’aumentare della produzione e dell’uso dell’etanolo, e quindi con la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra. Secondo il Governo brasiliano, il vero flagello sono dunque gli ingenti sussidi che beneficiano le grandi aziende agricole dei paesi più sviluppati, «le cui vittime», per dirla con Lula, «sono gli agricoltori dei paesi poveri». A difesa quindi della propria politica energetica, si nega che la produzione di carburanti alternativi contribuisca alla distruzione dell’Amazzonia, e al balzo dei prezzi alimentari. (Giova in questa sede ricordare che – almeno a credere alle parole della delegazione verdeoro al vertice del Sindacato europeo degli agricoltori – addirittura il 44,6 per cento dell’energia impiegata in Brasile sarebbe rinnovabile, ndr). «Non venitemi a dire», sono ancora parole di Lula, «che il cibo costa di più a causa del biodiesel. La ragione si deve ricercare nel fatto che il mondo non era preparato a vedere milioni di cinesi, indiani, africani e sudamericani mangiare con regolarità».
Si teme piuttosto, non senza ragione, che dietro il paravento di supposte argomentazioni sociali e ambientali, possano nascondersi specifici interessi, politici ed economici. Argomentazioni che pur in aperto conflitto con i programmi energetici brasiliani, vengono sostenute da buona parte dei governi progressisti latinoamericani: ad esempio il presidente boliviano Evo Morales – con evidente riferimento a Lula – ha detto di non condividere «affatto le posizioni di altri presidenti sudamericani, i quali ogni volta che parlano dei biocarburanti dimostrano di non saper che cosa dicono. Invece l’argomento è molto serio e fa capo alla seguente domanda: sono più importanti le auto o gli uomini? Per me gli uomini». Si è così puntualmente verificato quel che la classe dirigente brasiliana più temeva, cioè che l’idea della contrapposizione tra cibo ed energia riuscisse ad affermarsi anche al di là del dibattito puramente scientifico. Sinora non ne sono scaturiti atti concreti, tuttavia ciò è bastato perché anche il capo dello Stato assumesse, in talune circostanze, una posizione più conciliante: «Non accetterei mai di produrre combustibile a base di soia», ha di recente affermato, schierandosi anche contro l’impiego, a fini energetici, di cereali o altri vegetali commestibili.
L’obiettivo primario dei sudamericani è quindi rimarcare le profonde differenze tra la produzione nazionale, e quella degli Stati Uniti, basata sul mais. Scopo in parte raggiunto, almeno a leggere una delle ultime edizioni del quindicinale del Fondo monetario internazionale: «Molti paesi, compreso il Brasile, riescono a produrre etanolo in modo più economico, con un risparmio molto maggiore di energia non rinnovabile e minori emissioni, per esempio utilizzando lo zucchero. Ma questo tipo di etanolo è soggetto a tariffe proibitive negli Stati Uniti (e barriere simili ci sono anche in Europa)». La Banca mondiale pare essere dello stesso avviso, e il suo presidente Robert Zoellick si dice certo che l’industria brasiliana dell’etanolo offra «più efficienza e più benefici in termini di emissioni di gas inquinanti», rispetto ad altri paesi. Dichiarazioni elogiate dal ministro dell’Economia Guido Mantega, secondo cui i «biocombustibili ricavati dalla canna da zucchero si sono dimostrati una promettente tecnologia in molti paesi in via di sviluppo».
Senz’altro prezioso, a livello d’immagine, quanto dichiarato dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite: «Elogiando il fatto che il Brasile è stato pioniere nella produzione di biocombustibili con materia prima non agroalimentare, raccomandiamo che il sistema prosegua, cresca, e sia al contempo mantenuto il diritto all’alimentazione». Se non una sconfessione del relatore Ziegler, senz’altro un via libera all’etanolo da canna, la cui produzione, per i brasiliani, è senz’altro più redditizia rispetto a quella dello zucchero come dolcificante. (Va segnalato che per gli addetti ai lavori la canna, pur potendo essere destinata anche alla produzione alimentare, è una «materia prima non agroalimentare», ndr). Tema centrale dell’undicesimo International Energy forum, riunitosi poche settimane fa, è stato inevitabilmente il conflitto tra cibo e biocarburanti, cioè etanolo e biodiesel. A finire sotto accusa per l’impennata dei prezzi dei generi alimentari – che sta colpendo soprattutto, ma non solo, i paesi più poveri – sono state essenzialmente le coltivazioni destinate a fini energetici.
Lo stesso premier uscente Romano Prodi ha parlato di «conflitto tra cibo e combustibili con conseguenze disastrose a fronte di dubbi benefici in campo ambientale». Tuttavia, nonostante il documento finale del summit esprima perplessità sull’intero universo dei biocarburanti alternativi, non si è mancato di segnalare le enormi differenze tra la produzione Usa e quella brasiliana, che insieme immettono sul mercato il novantacinque per cento dell’etanolo mondiale, pari alla cifra record di quarantasei miliardi di litri. (Grazie ad elevatissimi incentivi, pari a 7 miliardi di dollari l’anno, nonché ai dazi che gravano sull’importazione di alcol brasiliano, l’industria nordamericana dell’etanolo, nel 2007, ha superato quella brasiliana, ndr). Tra le conclusioni del vertice, anche l’opzione preferenziale per i biocarburanti di seconda generazione no food (ricavati sopra tutto dagli scarti della pianta e dal riciclaggio della cellulosa), una volta che i progressi della tecnica li avranno resi convenienti.
Il malcontento verso i biocarburanti non poteva risparmiare l’Unione europea, ove se a formulare i rilievi più critici è stato il Governo britannico, anche Prodi è stato annoverato tra i leader più scettici. Specie in seguito a un duro articolo su “Repubblica”, ove ha sentenziato che «la politica adottata finora è stata decisa quando si pensava di vivere in un mondo di scarsità energetica e di eccedenza alimentare, ma le cose non stanno più così». La determinazione del primo ministro britannico Gordon Brown solo per un soffio non è riuscita ad imporre una clamorosa marcia indietro rispetto al noto “Piano 20-20-20” del gennaio 2007. (Esso dispone che entro il 2020 i biocarburanti dovranno coprire almeno il dieci per cento dei consumi energetici del settore dei trasporti, e che – entro la stessa data – le fonti rinnovabili debbano assicurare almeno il venti per cento del consumo totale d’energia. Si impone infine ai paesi membri di ridurre, entro il 2020, le emissioni di gas serra d’un quinto rispetto a quelle del 1990, ndr).
Le conclusioni del Consiglio europeo hanno, infatti, confermato il suddetto piano, a condizione però che si producano biocarburanti in modo sostenibile, e si promuova l’uso di quelli di seconda generazione. Apertura quindi all’etanolo brasiliano e successo, almeno parziale, della controffensiva di Lula? Almeno in parte sì, grazie soprattutto al fatto che quando la parola è passata agli scienziati, la differenza tra il biocarburante brasiliano e quello Usa, è potuta venire alla luce. Si è finalmente dato rilievo al fatto che l’etanolo da canna costa molto meno di quello da mais: ventisei centesimi di dollaro circa al litro, contro quaranta. E al fatto che l’alcool brasiliano emette il novantuno per cento in meno di anidride carbonica rispetto alla benzina, a fronte di una riduzione del solo venti per cento da parte dell’analogo prodotto ricavato dal granturco. Infine si è potuto dare la giusta visibilità ai sorprendenti dati sul diverso rendimento delle due fonti d’energia.
Nelle ultime settimane, a difendere la rivoluzione energetica brasiliana è stato, infatti, sopra tutto, l’ indice Eroei (acronimo di Energy returned on Energy invested), usato appunto per calcolare la diversa resa delle varie forme d’energia. E secondo cifre fornite dalla Goldman Sachs, la canna può vantare un valore che si attesta tra 8 e 9, mentre si scende addirittura all’1,34 per il mais: quindi se in Brasile un barile di etanolo consente di produrne oltre 8, negli Stati Uniti da un barile se ne ricavano solo 1,34.
Il merito di ciò va in larga parte all’evoluta tecnologia impiegata dai sudamericani, e all’intuizione nell’aver affrontato una scommessa ormai trentennale, sostanzialmente vinta. Intanto Eubrasil, associazione per i rapporti Europa-Brasile, informa che Bruxelles chiederà a Brasília di siglare un trattato perché siano rispettati rigidi criteri socioambientali nella produzione dei biocombustibili brasiliani destinati al mercato del vecchio continente.
Fonte: http://www.musibrasil.net